(Law Cases)
27 February
Date:
29/01/2016
Court:
Cassazione civile, sez. III
Place:
-
Number:
1666
Per il rilascio di un immobile concesso in comodato è necessario distinguere se si tratta di comodato propriamente detto, per il quale è possibile chiedere la restituzione immediata è possibile solo in caso di bisogno urgente ed imprevisto, o comodato senza determinazione di durata, caratterizzato dalla mancata pattuizione di un termine e dall'impossibilità di desumerlo dall'uso a cui è destinata la cosa e la cui richiesta di rilascio al comodatario è possibile "ad nutum".
(Cassazione civile, sez. III, 29/01/2016, n. 1666)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L'iter processuale viene così riassunto nella decisione impugnata.
Con sentenza del 12.2.2004 il Tribunale di Trani/Barletta rigettava la domanda proposta in data 20.05.1998 da L.L., proprietaria e comodante dell'alloggio sito in (OMISSIS), nei confronti del figlio L.A. e della nuora I.V..
Il primo giudice rilevava che l'attrice aveva agito contro il figlio e la nuora per il rilascio dell'alloggio, dato verbalmente in comodato al primo, senza avere dimostrato la propria legittimazione attiva.
Appellava, per la riforma della sentenza e l'accoglimento della domanda, L.L., adducendo plurimi motivi, cui resisteva la sola I., mentre L.A. restava contumace.
La Corte di appello di Bari, disattesa l'istanza cautelare dell'impugnante, con sentenza in data 12/17.12.2007 accoglieva l'appello e per l'effetto condannava I.V. e L. A. a rilasciare l'immobile per cui è causa nella piena disponibilità dell'attrice comodante libero da persone e da cose;
compensava per l'intero le spese dei due gradi.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione I. V. contro L.L. e nei confronti di L. A., svolgendo cinque motivi.
Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte intimata.
Con ordinanza del 28 aprile 2014 la decisione era rinviata all'esito della decisione delle Sezioni unite sulle questione sollecitata con ordinanza interlocutoria n. 15133/2013.
Infine il ricorso è pervenuto in decisione all'udienza collegiale del 24 novembre 2015 sulle conclusioni in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La Corte territoriale - premesso, in ordine alla legittimazione attiva dell'appellante, che l'azione di rilascio spettava al concedente a prescindere dalla qualità di proprietario e precisato che, in ogni caso, nella specie la documentazione versata in atti era indicativa del ruolo dominicale di L.L. - ha rilevato che l'assegnazione della casa coniugale in sede di separazione personale a uno dei coniugi, legittima l'esclusione dell'altro dal godimento del bene in favore dell'assegnatario dei figli, ma lascia fermo che gli effetti risultano regolati dalla disciplina vigente prima della separazione. Sulla base di tali premesse e sulla scorta delle risultanze della prova orale, ha, quindi, ritenuto che: a) nella specie gli accordi intervenuti tra l'appellante e il proprio figlio L.A. non si discostassero dall'ordinario comodato senza fissazione di un termine predeterminato (c.d. precario) e con facoltà di recesso ad nutum; b) che il comodatario è, dunque, tenuto a restituire il bene quando il comodante lo richieda; c) che nella specie il diritto di recesso dell'appellante era stato legittimamente esercitato.
2. Il ricorso, avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e antecedente al 4 luglio 2009), è soggetto alla disciplina di cui agli artt. 360 c.p.c. e segg., come risultanti per effetto del cit. D.Lgs. n. 40 del 2006; si applica, in particolare, l'art. 366 bis c.p.c., stante l'univoca volontà del legislatore di assicurarne l'ultra-attività (ex multis, cfr. Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194), atteso che la norma resta applicabile in virtù dell'art. 27, comma 2 del cit. D.Lgs., ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che rilevi la sua abrogazione, a far tempo dal 4 luglio 2009, ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), in forza della disciplina transitoria dell'art. 58 di quest'ultima.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione dell'attività giurisdizionale ex art. 112 c.p.c.; e ciò in quanto, a seguito del provvedimento di assegnazione della casa coniugale alla I., L.A. non sarebbe stato più legittimato passivo rispetto all'azione di rilascio. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di affermare che "la domanda proposta dal comodante per ottenere il rilascio del bene concesso in comodato nei confronti dell'originario comodatario, che secondo quanto dedotto in giudizio dal medesimo attore è escluso dal godimento del bene concesso in comodato in virtù di provvedimento giudiziale di assegnazione del medesimo immobile in favore del coniuge separato, sia destinata a non produrre effetti in quanto il convenuto - originario comodatario - non è legittimato a contraddire per effetto della legge che regola il rapporto giuridico (L. n. 392 del 1978, art. 6, comma 2 e art. 155 c.c.). Con il conseguente rigetto della domanda per mancanza di una condizione dell'azione".
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione dell'attività giurisdizionale ex art. 112 c.p.c., per avere il Giudice di appello accolto la domanda anche nei confronti della I., sebbene questa fosse stata citata in giudizio "per quanto occorre"; in particolare - poichè anche dopo che la I. era "intervenuta in giudizio", l'attrice aveva insistito nell'affermare che "legittimato passivo all'azione di rilascio è esclusivamente L. - I., perchè la citazione è stata notificata alla I. al solo scopo di metterla al corrente dell'intenzione di L.L. di riottenere la disponibilità dell' immobile ..." (così nella memoria integrativa) - la Corte di appello non avrebbe potuto condannare al rilascio la odierna ricorrente, essendo tardiva "l'integrazione" della domanda nei suoi confronti formulata nell'atto di appello. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di affermare che "incorre nel vizio di extra-ultrapetizione il Giudice nel pronunciare nei confronti dell'intervenuto una pronuncia di condanna anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, limitando tale richiesta al convenuto e negandola espressamente nei confronti del medesimo intervenuto.
Infatti il principio dell'estensione automatica degli effetti della domanda all'interventore va temperato con i principi generali sull'impulso processuale".
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 437, 447 bis e 345 c.p.c., per avere la Corte di appello pronunciato il rilascio nei confronti della odierna ricorrente, nonostante la novità della domanda formulata in appello. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di affermare che "si configura come domanda nuova - e come tale inammissibile in appello (con rilevabilità dell'inerente violazione del divieto di ufficio) - quella formulata in secondo grado contro il convenuto e contro l'intervenuto, quando nel giudizio di primo grado l'attore abbia negato la legittimazione processuale rispetto a quella stessa domanda dell'intervenuto, affermando nel contempo quella esclusiva del convenuto".
3. Tutti i suddetti motivi sono inammissibili, vuoi perchè corredati da quesiti astratti e non comprensibili anche ove fosse possibile integrarne i contenuti con la lettura dei motivi stessi, vuoi per la novità delle questioni di cui non è traccia nella decisione impugnata (donde sarebbe stato necessario indicare specificamente se e come le questioni stesse vennero proposte nel giudizio di merito, formulando una censura di omessa pronuncia sulle stesse), vuoi, ancora, se non soprattutto, per difetto di autosufficienza in considerazione della mancata specifica indicazione degli atti processuali su cui i motivi si fondano, giusta quanto previsto dall'art. 366 c.p.c., n. 6.
Sull'esegesi di detta norma si rinvia: a Cass. Sez. un. 2 dicembre 2008, n. 28547 e 25 marzo 2008 n. 7161, quanto all'indicazione dei documenti su cui si fonda il ricorso; a Cass. Sez. un. 3 novembre 2011 n. 22726 quanto all'indicazione degli atti processuali (seppure con riguardo al diverso onere di cui all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), nonchè alla costante giurisprudenza delle Sezioni semplici (ex multis: Cass. civ., 09 aprile 2013, n. 8569; nonchè: Cass. civ. n. 20535 del 2009, n. 4201 del 2010, ord. n. 26266 del 2008; ord. n. 6820 del 2010; ord. n. 6937 del 2010), secondo cui in tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell'onere, imposto al ricorrente dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l'esame.
4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 155, 1809 e 1810 c.c., nonchè dei principi di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., anche sotto il profilo della omessa e/o errata applicazione. In particolare la ricorrente richiamati in diritto i principi espressi da Cass. Sez. unite 2004/13603 - si duole che la Corte territoriale non abbia valorizzato la destinazione dell'immobile a casa famigliare, desumibile dal comportamento complessivo delle parti anche successivo alla stipula del comodato e dagli usi del luogo di conclusione del contratto, normativamente sovraordinati al criterio finale di cui all'art. 1371 c.c., della minore gravosità per l'obbligato. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., di affermare che "quando il giudice debba procedere, come nel caso di specie, alla qualificazione del contratto, nel caso in cui l'accertamento della comune volontà dei contraenti non emerga con chiarezza e univocità dalle espressioni impiegate dagli stipulanti al momento della conclusione del contratto, il giudice è tenuto ad applicare i criteri gerarchicamente subordinati della valutazione del comportamento anche posteriore dei contraenti, facendo ricorso a quanto normalmente praticato nel luogo di conclusione per casi simili e solo infine subordinatamente al criterio della minore gravosita dell'obbligato.
In ambedue i casi, poi, deve dare adeguata e logica motivazione, tale da fare comprendere l'iter logico seguito. Nel caso di specie il giudice: 1) non ha specificato il momento di conclusione del contratto; 2) ha esclusivamente basato la qualifica del contratto de quo su espressioni unilaterali della "comodante" fatte in momenti non precisati, considerandole "intenti comuni" dei contraenti e traendone le condizioni contrattuali comuni, pretermettendo altri elementi pur emergenti nel processo (comportamenti delle parti e uso del luogo di conclusione); 3) ha, sia pure in subordine, considerato "ambigue" dette espressioni, applicando non già le regole sovraordinate di ermeneutica contrattuale ("comportamento delle parti e usi del luogo di conclusione) ma quelle finali di cui all'art. 1371 c.c.".
5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia incongrua, omessa e/o insufficiente motivazione circa una risultanza processuale e decisiva per il processo, per avere omesso di valutare fatti esterni oggettivi, correlativamente valutando in congruamente le prove testimoniali e l'attendibilità dei testimoni. Nella sintesi conclusiva si enunciano i seguenti vizi nel procedimento valutativo delle prove: a) l'avere omesso prioritariamente di partire da fatti esterni oggettivi, sicuramente sintomatici acquisiti al processo; b) l'avere omesso di valutare le prove costituende alla luce degli stessi; c) l'avere valutato contraddittoriamente e insufficientemente le medesime prove costituende e, così, l'attendibilità dei testi escussi solo alla stregua di supposizioni (invece non emergenti) di carattere soggettivo, senza alcuna valutazione di elementi di natura oggettiva.
5.1. I suddetti motivi vanno esaminati congiuntamente, per la stretta connessione delle censure e - pur nella non perspicua formulazione del quesito di diritto e del momento di sintesi - consentono di cogliere la questione centrale del giudizio che è quella qualificazione del contratto. Lamenta, nella sostanza, la ricorrente, che la Corte di appello, facendo erronea applicazione dei criteri di ermeneutica e motivando in termini insufficienti in punto di accertamento della volontà contrattuale, abbia obliterato il vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari dell'immobile dato in godimento, quale oggettivamente emergente dalla realtà procedimentale e in primis dal comportamento delle parti.
Si tratta di una problematica, esaminata già dalla sentenza n. 13603/2004 richiamata dalla ricorrente, che nelle more del presente giudizio è stata oggetto di rimeditazione dalle Sezioni Unite, con sentenza 29 settembre 2014, n. 20448, con la quale, delineando la distinzione tra le due "forme" di comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c. e il c.d. precario, al quale si riferisce l'art. 1810 c.c., sotto la rubrica "comodato senza determinazione di durata", si è precisato che solo nel caso di cui all'art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall'uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario. L'art. 1809 c.c., concerne, invece, il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale ed è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c.c., comma 2). A questo tipo contrattuale va, quindi, ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso anche nelle sue potenzialità di espansione. Si tratta, infatti, di contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall'insorgere di una crisi coniugale. Ed è grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto dell'art. 1809, comma 2, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale.
Merita puntualizzare che spetta al coniuge separato, convivente con la prole minorenne o maggiorenne non autosufficiente ed assegnatario dell'abitazione già attribuita in comodato, che opponga alla richiesta di rilascio del comodante l'esistenza di un comodato di casa famigliare con scadenza non prefissata, l'onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. Si tratta di un problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell'insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc.) che sono sottoponibili al suo giudizio. Mentre spetta a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto per il sopraggiungere del termine fissato per relationem e, dunque, l'avvenuto dissolversi delle esigenze connesse all'uso familiare (così Sez. un. n. 20448 del 2014 cit. in motivazione).
Nel caso in esame i giudici di appello - focalizzando la loro indagine sul momento costitutivo del rapporto e sul mero dato che la I. avesse concesso al figlio l'uso dell'abitazione "fintanto che a lei non serviva" - hanno desunto da ciò che il contratto fosse risolvibile ad nutum, senza verificare se, dal complesso delle emergenze probatorie e, segnatamente, dal comportamento delle parti, anche successivo all'accordo, emergesse la concorde volontà delle parti di imprimere all'immobile quella destinazione a casa familiare che, in effetti, ha avuto e che sarebbe incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall'incertezza, proprie del comodato cosiddetto precario; in tale modo trascurando anche di verificare se effettivamente la pretesa di rilascio fosse giustificata dall'"urgente necessità di trarre reddito dall'immobile per integrare le modestissime entrate sue e dell'anziano marito" (v.
pag. 2 della sentenza), così come addotto dall'originaria attrice.
In definitiva i motivi quarto e quinto vanno accolti; ciò comporta la cassazione della sentenza impugnata in relazione e il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bari in diversa composizione, che provvederà ad un nuovo esame delle risultanze probatorie, verificando alla luce di tutti gli elementi del caso concreto sottoposti al suo giudizio e avuto riguardo ai principi espressi da Sez. un. n. 20448/2014 sopra richiamati se la concessione del godimento del bene avvenne in prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare, traendone le necessarie conseguenze in ordine ai presupposti della domanda di rilascio.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto e il quinto motivo di ricorso; dichiara inammissibili i primi tre; cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Bari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2016
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